di Antonio Giuseppe Malafarina – Fonte: superando.it
Tante madri e padri, ma anche mogli, mariti, fratelli e congiunti vari, abbandonano il lavoro per dedicarsi completamente all’amato con disabilità, perché non hanno alternative. E ci sono anche coppie che si disgregano. Basterebbe una risposta collettiva diversa alle questioni delle persone con disabilità. Una risposta di conciliazione nell’interesse comune.
Propongo dunque un punto di vista, un’epifania antropologica nota, ma da riproporre. Tale manifestazione di pensiero, appunto epifania, mi tocca personalmente. Sia perché mi avvolge quotidianamente come persona disabile e sia perché avviluppa altre famiglie che conosco. Famiglie con disabilità alle prese con il proprio sé.
Mettiti nei panni di un familiare che sa che un elemento del gruppo ha bisogno. Che fai? Sai che è indifeso, che senza la costante presenza di una persona, almeno una, al suo fianco è finito: non può comunicare, non può bere, se gli va qualcosa di traverso lo vedi soffrire, cambiare colore, volere dirti qualcosa e non sapere come fare. Cosa fai? Hai sufficiente spregio dell’altro da restare inerme come il più atroce degli indifferenti?
Non ce la fai. Intervieni, e non una volta ma ogni volta che serve. Cioè pressoché sempre. E nella perpetuazione della tua scelta inevitabile, il tuo lavoro rischia di andare a ramengo, perché due cose al contempo non sempre puoi farle. Che già per fare quella che fai devi trovare la gabola per stare col tuo congiunto senza mollarlo e contemporaneamente andare per uffici a sbrigare pratiche, fare la spesa, comprare vestiti e atti di diversificata corvée.
Altre persone ti danno una mano, e si chiamano familiari. Ma come te non c’è nessuno, perché tu sai che nessuno al pari di te conosce quella persona. Avete costruito una simbiosi unica. Siete così solidali che a un certo punto ti sei dimenticato di avere un te stesso di cui occuparti. Non fa niente, va bene così.
C’è gente che pensa che questa non sia vita. Ma tu sai che non è vero. Hai imparato ad apprezzare la vita per quello che è e a ricavarti i tuoi momenti di gaudio. Ciò non toglie che avresti gradito meno tortuosi percorsi per raggiungere la consapevolezza della felicità. Un aiuto ti farebbe piacere.
Ma, connotazione agghiacciante, nella tua consapevolezza sei conscio di non essere eterno. Ne soffri. Pensi al dopo, a quando non sarai in grado di fare quello che stai facendo o non ci sarai più. E scacci questi pensieri brutti. Questo sei tu. Nella gran parte dei casi delle famiglie con persone con disabilità succede così. E succede non a un solo elemento, ma a più persone, a loro modo uniche e insostituibili. Madri e padri indispensabili al contempo, consapevoli della potenza della loro unione e dentro di sé consci dell’unicità del proprio ruolo.
Ma non è tutto. C’è il controcanto. C’è la persona che riceve l’aiuto, che pure ha un punto di vista, fatto di osservazioni, conoscenza, sentimenti. Una voce che resta inespressa perché non trova la forza, la sfrontatezza, di venire fuori. E certe volte, quando la trova, si disperde in silenzio, sottovalutata o paurosamente respinta.
È la mia voce, quella di me che ti guardo morir di fatica per me. Vorrei che non fosse così, ma non c’è alternativa. Ho bisogno di cibo, devi essere tu a imboccarmi. Ho bisogno di una coperta, coprimi. Mi serve fare pipì, pensaci tu.
Provo un profondo senso di frustrazione, di vergogna, per avere bisogno di te che già tanto per me fai. Vorrei essere io ad aiutarti. A porgerti una tazzina di caffè quando sei stanco. Mi addolora ricevere passivamente. Non mi è sufficiente sapere che fai per amore, o per eccelso senso del dovere. Ma mi convinco. Lo accetto. Non ho alternative.
Si è appena chiuso un anno e ne è iniziato uno nuovo. Penso che dobbiamo trovare un maggior senso dell’appartenere. La nazione è una famiglia allargata. C’è bisogno d’amore.
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