«A un libro sui temi della disabilità – scrive Matteo Schianchi – non si può chiedere nulla di meglio di fornire occasione e argomentazioni per riflettere e discutere. Per questo vale la pena leggere la traduzione italiana di “Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali” di Tom W. Shakespeare, una delle figure più significative del panorama internazionale degli studi sulla disabilità. Si tratta infatti di un testo destinato a chi vive la disabilità, a chi la studia, a chi se ne occupa quotidianamente e a chi ne fa motivo di impegno professionale, civile e politico»

Mentre si annuncia la prossima pubblicazione della traduzione italiana di un classico degli studi sulla disabilità, The body silent di Robert Murphy, sul quale ci eravamo soffermati qualche anno fa su queste stesse pagine, è di recente uscito un testo che vale certamente la pena di leggere.
Non si può chiedere infatti nulla di meglio a un libro sui temi della disabilità di fornire occasione e argomentazioni per riflettere e discutere. La recente pubblicazione della traduzione italiana di Disabilità e società. Diritti, falsi miti, percezioni sociali di Tom W. Shakespeare (Trento, Erickson, 2017), è per questo particolarmente opportuna. Si tratta di un testo destinato a chi vive la disabilità, a chi la studia, a chi se ne occupa quotidianamente e a chi ne fa motivo di impegno professionale, civile e politico.

L’Autore, docente in diverse università inglesi e consulente per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si definisce «persona disabile, nonché figlio, padre, marito e amico di persone disabili» ed è tra le figure più significative del panorama internazionale degli studi sulla disabilità. Qualche anno fa, esattamente nel mese di giugno del 2013, ha tenuto anche una lezione a Napoli.
I temi affrontati in Disabilità e società sono numerosi e articolati e, per cogliere l’importanza di questo testo per il pubblico italiano, non è necessario condividere nella sua interezza la prospettiva analitica dell’Autore e le sue proposte. Personalmente, su alcuni temi ho le idee molto meno chiare (e dunque mi obbliga a rifletterci) e articolerei diversamente l’approccio relazionale alla disabilità. Resta il fatto che – come indica la presentazione italiana di Franco Ferrucci – l’analisi di Shakespeare «segnala la necessità di un paradigma che ci consenta di osservare e gestire le relazioni sociali, non soltanto gli individui disabili e le loro scelte» (pagina 18).

In fatto di disabilità, l’uso del termine paradigma è sempre rischioso. Troppo spesso alcune teorie o paradigmi che intendevano cogliere e spiegare la disabilità nella sua interezza si sono rivelati parziali e inefficaci nel rendere conto di altre dimensioni che compongono l’articolato e variegato mondo delle persone con disabilità e, come segnala l’Autore, «qualsiasi teoria sociale della disabilità deve evitare l’errore di fondere e semplificare la varietà delle diverse esperienze delle persone disabili, o di banalizzare la vita con una menomazione grave» (pagine 112-113).
Il testo propone una «prospettiva realistica critica» che sappia rendere conto del fatto che «le persone sono rese disabili sia dalla società sia dal proprio corpo» (pagina 107). Riportare al centro delle analisi le menomazioni, criticare il modello sociale, non significa, tuttavia, piombare nuovamente nel cosiddetto “modello medico”, né negare i contesti disabilitanti, né quanto il modello sociale abbia fatto avanzare la causa delle persone con disabilità. Si tratta, invece, di articolare l’esperienza sociale della disabilità, evitando posture ideologiche e semplificazioni. Si tratta anche di orientare nuovamente le analisi e le rivendicazioni, andando oltre il concetto di uguaglianza: «occorre ridistribuzione per promuovere la vera inclusione sociale» (pagina 125).

Queste posizioni sono chiaramente esplicitate nel terzo capitolo, dopo avere passato in rassegna, nei primi due, i principali orientamenti dei Disability Studies, criticando tanto gli approcci materialisti alla disabilità, quanto gli studi culturali.
Si possono condividere o meno le critiche, nette e puntuali di Shakespeare, a tali approcci alla disabilità, ma per il lettore italiano questi due capitoli sono particolarmente utili. Anzitutto poiché passano in rassegna molti degli Autori e degli approcci che hanno fatto la storia dei Disability Studies. Di questo approccio che – ricordiamolo – non è l’unica opzione dello studiare e analizzare la disabilità, ci forniscono un quadro articolato.
Si tratta dunque di un contributo analitico che consente di allargare gli orizzonti di un dibattito culturale italiano su questi temi il quale, oltre che ridotto, appare francamente schiacciato sugli orientamenti analizzati nel primo capitolo, quando non ci si presenta con una banalizzazione di slogan e parole d’ordine.

Anche il capitolo sul tema delle politiche e dell’identità delle persone con disabilità, fornisce numerosi spunti per un dibattito – anche questo tutto da fare – sul movimento associazionistico della disabilità.
L’Autore torna sulla centralità della menomazione nel percorso sociale delle persone con disabilità, per articolare i concetti di affermazione e identità. Si tratta, in questo senso, di discutere e orientare nuovamente gli approcci dei diritti civili sostenuti dal modello sociale. Queste posizioni, non rischiano di essere frutto di contesti socio-economici privilegiati, giacché non sembrano aver giovato alle persone con disabilità dei Paesi più poveri? È una questione che si pone al movimento delle persone con disabilità nella misura in cui le rivendicazioni e i Disability Studies sembrano spesso orientati da un approccio che considera alcune specifiche esperienze (le menomazioni fisiche) e appartenenze geografiche (l’Occidente).
Pur non essendo sempre chiara ed esplicita l’articolazione tra dimensione individuale e collettiva e secondo una prospettiva definita “post-identitaria” e tributaria dell’approccio del filosofo tedesco Axel Honneth, l’Autore sostiene la necessità di opporsi ad alcune derive identitarie e vittimiste: «non ricercare e celebrare una nozione separatista di orgoglio disabile basato su una concezione etnica di identità della disabilità» (pagina 148).

Gli ultimi due capitoli affrontano questioni etiche e sociali particolarmente rilevanti, come l’inizio e il fine vita, l’assistenza personale, le relazioni sociali e sessuali delle persone con disabilità.
In fatto di bioetica Shakespeare contesta posizioni e obiezioni espresse da una serie di attivisti per i diritti delle persone con disabilità e alcune pratiche diffuse della bioetica. Lo scenario delle analisi è prettamente quello del mondo anglosassone. Tuttavia, anche in questo caso, indipendentemente dalle posizioni dell’Autore, il testo si afferma per la sua peculiarità: fornire argomenti, studi, posizioni su questi temi. Fornire cioè quello che sembra spesso mancare nelle discussioni all’interno della nostra società civile: materia e riflessioni per articolare i dibattiti attorno a tali questioni, andando oltre gli antagonismi etico-ideologici tra posizioni “concrete” (sì o no all’assistente sessuale, sì o no all’eutanasia), privi di riflessioni più articolate, e più profonde, e che sappiano rendere conto delle numerose dimensioni che stanno dietro temi così decisivi.

Giacché uno dei principali bersagli del testo è il modello sociale, che «ha bisogno di una revisione» (pagina 21), nelle brevi conclusioni l’Autore afferma alcune posizioni sostenute con forza da questa prospettiva politico-analitica. Shakespeare condivide, in particolare, la necessità di rimuovere barriere sociali e ambientali come priorità principale per la politica della disabilità. Afferma l’esigenza di sostenere l’autodeterminazione delle persone con disabilità e sottolinea che l’emancipazione delle persone con disabilità passa per il contrasto alla medicalizzazione e alle barriere culturali legate ai preconcetti della disabilità come incapacità.

Scrivere di disabilità, parlarne, farci un film, naturalmente espone sempre alle critiche di non aver detto tutto, di aver dimenticato qualcosa o qualcuno. A Shakespeare, ad esempio, qualcuno potrebbe rimproverare di affrontare solo i “segnanti” in tema di sordità e di andare un po’ veloce sul vasto mondo delle disabilità intellettive. Non condividerei una simile critica. Mi pare necessario, infatti, abbandonare qualsiasi prospettiva di abbracciare con un solo termine e concetto, quello di disabilità appunto, il complesso, variegato e articolato mondo che lo compone.
L’invito dell’Autore di riconsiderare le menomazioni e i diversi funzionamenti, senza per questo ricadere nel modello medico né essere accusati di prestarvi il fianco, la critica alla parzialità dell’idea di modello sociale sono, in questo senso, un importante stimolo culturale e politico per analizzare la disabilità non in termini ideologici, ma secondo prospettive che sappiano discutere, analizzare, rendere conto e praticare tutto il sociale di cui sono fatte le persone con disabilità.

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