Fonte: superando.it – di Antonio Giuseppe Malafarina * – 

«Combattiamo così – scrive Antonio Giuseppe Malafarina -, senza neppure un interlocutore da prendere di mira. E noi, persone con disabilità gravissima, viviamo in un’incertezza da “battaglione dimenticato dai generali”. I discorsi dei Ministri non ci toccano. Nessuno parla di noi. Siamo più invisibili del solito. Ci farebbe piacere sentire una parola di conforto.

 

 

Come quando le linee in rotta sentono la voce del condottiero e si rianimano. Verrebbe voglia di issare bandiera bianca, ma non abbiamo un nemico cui arrenderci. E arrenderci sarebbe la morte e noi non vogliamo morire».

Non ho vissuto la guerra. Quasi nessuno di noi ha passato la guerra. Ma avendone sentito parlare, mi vengono alla mente storie di gente in attesa del notiziario di Radio Londra, di sirene che suonano all’improvviso, di anime in fila per la spesa e di un costante stato d’ansia. Un’incertezza affamata di briciole di speranza.
Combattiamo così, in questo 2020. Senza neppure un interlocutore da prendere di mira. E noi, persone con disabilità gravissima, in un’incertezza da battaglione dimenticato dai generali. Lo stesso senso di sconforto. È terribile sentirsi abbandonati dalla madrepatria!

In verità molti volontari non ci hanno abbandonato. Ci stanno vicini gli amici, quando ci sono e quando non sono sopraffatti dalla paura. Ci stanno vicini gli assistenti domiciliari, quando sono ben attrezzati e non hanno titubanze. In verità, in molti casi non ci stanno vicini affatto. Sono tante le famiglie che denunciano l’abbandono dell’assistenza domiciliare.
Gli assistenti hanno timore, non sono dotati dell’attrezzatura necessaria per trattare il paziente infetto, pertanto alcuni non se la sentono di fornire il loro lavoro. Teniamo conto che le persone che vanno ad assistere quasi mai sono affette da virus.
Non li giudico, elogio quelli che vanno avanti. Non perché vadano elogiati, in quanto fanno il mestiere che hanno deciso di fare e si sa che in Italia può capitare di fare il proprio mestiere in condizione d’emergenza, bensì perché restano coerenti con il diritto alla vita.

Quando l’assistente ti abbandona, la ferita è profonda e duplice. Da un canto ti manca la manodopera per assistere il familiare con disabilità. Dall’altra ti senti etichettato. Di un’etichetta brutta, come le altre tante affibbiate, per cui tu sei la persona che è pericolosa da assistere quasi a prescindere. È pericoloso muoversi per venire da te e potresti essere veicolo di non si sa quale virus.
Le famiglie con disabilità, in linea teorica, sono le più protette dal virus, proprio perché per ragioni vitali prendono precauzioni per non essere contagiate. E sono costituite da persone che non escono di casa con frequenza. Recluse in casa ci vivono da sempre.

«Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», noi di più. Il nostro senso di precarietà, quali persone con disabilità a domicilio (perenne) è acuito dalla condizione dei membri della famiglia.
Attorno alla persona con disabilità spesso ci sono persone fragili. Genitori ultrasessantacinquenni che avrebbero diritto alla più totale tutela. Quindi ti prende una paura folle e considerata perché ti senti precario nella precarietà. Sai di non poter uscire e cerchi di non farlo. Ma sai che se non esci tu, non c’è uno Stato che fa le cose al posto tuo. Già prima c’era poco, adesso non c’è del tutto.
Quindi esci. Maledettamente protetto e accorto nell’osservare tutte le precauzioni del caso, esci. Per andare a fare la spesa, in farmacia, a prendere il pane. E non c’è nessuno che ti fa passare davanti perché hai più bisogno, perché nessuno sa che hai più bisogno. E gli altri parimenti hanno bisogno.
Quelli che stanno a casa temono. Vien loro una paura pazzesca sapendo che sei fuori e li espone a un rischio che non vedranno subito. Si vive nell’angoscia, per quanto i contatti con l’esterno si riducano all’osso. Si cerca di stare protetti e uniti. Non dovremmo abbracciarci, ma come si fa? Fra di noi, fra noi familiari stretti stretti lo facciamo. Tanto siamo fra di noi e vivendo nello stesso ambiente, dovendoci prendere cura pratica gli uni degli altri, ci infetteremmo comunque. Non è un ragionamento sanitariamente corretto. Non fatelo, voi. Non si fa, aumenta il rischio di contagio. Ma a noi, a noi che siamo protetti dalla bolla dei contatti ridotti e siamo respinti nell’isolamento, per favore non toglieteci l’intimo abbraccio. A mani e volti lavati, persino con la mascherina, ma non toglieteci il potere dell’abbraccio!

C’è quella storia di mamma Pinuccia che si è inventata la favola di un drago cattivo che vuole mangiare tutti per togliere dal figlio la paura di non uscire. Con la chiusura dei centri diurni, altro grande problema, si è convinto di essere ammalato, con un aggravamento del suo stato d’animo incredibile. Mamma Pinuccia si è improvvisata favolista. I genitori (i familiari) delle famiglie disabili sono fatti così. Ognuna merita altro che “il Nobel dei Nobel”.

Noi persone disabili, col cuore spezzato. Già vedendo i miei genitori quotidianamente nel loro amorevole afflato d’assistenza, soffro il dolore di chi riceve senza poter fare. In questo periodo è difficile restare indifferenti vedendo i più resistenti della truppa, fragili pedine anch’esse, affrontare a viso aperto il nemico. Non ci si riesce. Il cuore ti trema. Paura, amore e speranza si mescolano in un’indistinta emozione da nodo alla gola.
Noi stiamo così, combattendo la nostra guerra, indignati con chi non rispetta il coprifuoco. E con i negozi online che dicono di dare precedenza alla consegna di certe categorie di persone, ma non verificano che chi acquista faccia parte di quella categoria.
Siamo delusi da chi si dimentica di noi. C’è il personale sanitario in prima linea negli ospedali. Ma nelle trincee delle case disabili il fronte è sguarnito.
I discorsi dei Ministri non ci toccano. Nessuno parla di noi. Siamo più invisibili del solito. Ci farebbe piacere sentire una parola di conforto. Come quando le linee in rotta sentono la voce del condottiero e si rianimano. Verrebbe voglia di issare bandiera bianca, ma non abbiamo bandiera. Non abbiamo un nemico cui arrenderci. E arrenderci sarebbe la morte e noi non vogliamo morire.

Ci vorrebbe un rinforzo. Ci vorrebbe che lo Stato trovasse il personale per farci la spesa, comprarci le medicine, assisterci nelle esigenze sanitarie. In Italia non si sa mai quanti disabili ci sono, dove sono e quali problematiche hanno. Quindi ci vuole un ramo dedicato nel momento dell’emergenza. Bisogna creare una struttura che sopperisca alla mancanza di personale e materiali. E bisogna finanziare le Associazioni di volontariato che fanno assistenza. Forse fornire più soldi nell’emergenza per la non autosufficienza potrebbe portare a un aumento dello stipendio del personale e questo potrebbe rendere conveniente per gli operatori dell’assistenza domiciliare non abbandonare il mestiere.
Si potrebbero fare tante cose. Non se ne fa nessuna. Noi manteniamo le posizioni, ma lo Stato ci uccide d’inedia.

* Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “L’inedia dello Stato di fronte alle persone con disabilità”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.